L'ESPERIENZA ALBANESE DI
Padre Sandro, Nicoletta, Giorgia, Anna, Lara, Alessia, Dario e Valerio di Montevirginio
AGOSTO 2014
Siamo partiti in otto, pronti, carichi di entusiasmo su un pulmino strapieno, senza sapere a cosa andavamo incontro.
Il primo impatto è stato con il degrado ambientale e morale del porto di Durazzo. Le persone che incontravamo assaltavano il pulmino e chiedevano l'elemosina, noi abbiamo dato loro merendine e caramelle e questo è bastato a far nascere sui loro volti sinceri sorrisi.
Più ci allontanavamo dalla città più aumentava la povertà ma le persone erano più risolute nell' andare avanti dignitosamente.
Dal porto siamo andati a Nenshat ad incontrare le famose monache Carmelitane, con le quali è iniziato e tutto è finito. Vedevamo il monastero già da lontano: un campanile bianco in cima ad una collina si affacciava come ad indicarci la via, promettendo salvezza, promettendo ristoro dopo il lungo viaggio. Ci ha calorosamente accolto Suor Rosa e poi tutte le altre monache i cui sorrisi ci hanno da subito travolto, infondendo in noi solo serenità e gioia. Dopo una piacevole chiacchierata durante la quale ci siamo raccontati e abbiamo avuto il piacere di assaggiare, oltre alla loro
straordinaria allegria, anche i deliziosi dolci di Suor Mihaela, siamo andati a pranzo dai padri Carmelitani, che presto abiteranno di fronte alle monache.
Piamo andati a Lach un paese vicino Nenshat dove siamo stati ospiti alla casa di carità per cinque giorni. Abbiamo collaborato con le suore carmelitane di vita attiva, nella gestione della casa (pulizie, stirature, fare la spesa ecc.), e nell'intrat-tenimento dei bambini lì presenti. Eravamo disponibili a fare tutto quello che ci chiedevano. Questo per noi è lo spirito missionario.
In questi giorni con le suore di Dorotea, che vivevano accanto alla casa, abbiamo fatto visita ad alcune famiglie.
Famosa è l'ospitalità albanese e noi ne abbiamo fatto l'esperienza. Pur nella povertà, quando arriva un ospite in casa la sua presenza è quasi sacra, per cui tutti si adoperano come meglio possono per essere accoglienti e offrire il meglio di quel poco che hanno. Ci hanno raccontato che durante il periodo della dittatura la frutta era rarissima poiché il regime la requisiva. Se in casa si aveva una semplice mela, cosa rara e pericolosa,
e veniva un ospite, a lui si riservava questo privilegio.
Nei giorni a seguire abbiamo svolto qualsiasi tipo di servizio: dall'imboc-care i bambini disabili, fino al pulire i bagni. Non ci sono stati problemi, anche se non era la missione tra le montagne, la missione raccontata dai film, fatta da eroi e gente non comune. Eravamo partiti con la mente aperta, pronti a tutto, pronti a fare qualsiasi cosa, senza aspettative né castelli in aria. Questo è un consiglio anche per i missionari di domani: -Non partite con false immagini del concetto "missione", e non cercate di capire nei minimi dettagli cosa andrete a fare perché lo capirete un passo alla volta, durante la missione. In poche parole, partite con il cuore aperto.
La nostra seconda tappa è stata Scutari. Lì ci hanno ospitato le Suore di Madre Teresa di Calcutta. Sono in sette e hanno una casa dove ospitano 70 ragazzi, tra orfani, malati psichiatrici e bambini con handicap fisici. La nostra presenza era preziosa data la mancanza di personale volontario. Solo al pensiero sembra un ambiente angosciante, dove, ovunque ci si giri, si vedono persone "diverse" da noi. Invece no, era bello, quanto consolante vedere come, chi aveva meno problemi aiutava i più gravi, così da formare una grande famiglia in grado di tirare avanti da sola. Credevamo di andare lì e "dettare legge" o comunque di insegnare loro giochi e coinvolgere tutti nella nostra realtà. A distruggere tutte le nostre aspettative sono arrivati i ragazzi meno problematici e ci hanno trascinati nel loro ambiente insegnandoci giochi, balli e canti. Questa esperienza ci ha dato la coscienza del termine Missionario: un
missionario si può dire tale, non quando è autorevole e si fa rispettare, ma quando si mette al di sotto dei bisognosi creando una sorta di piedistallo con cui sollevare l'animo della gente. E' lecito pensare che gente con malattie psichiatriche gravi, o bambini con uno sguardo perso nel vuoto siano fini a se stessi, immersi nel loro mondo, incapaci di relazionarsi con chi li circonda. L'Albania ci è servita per abbattere anche questo pensiero.
Eravamo in partenza, e quante lacrime versate per noi, colavano a picco dai volti di tutti i bambini, a testimonianza della buona riuscita della nostra missione.
L'ultima tappa, come già detto all'inizio, è stato il pranzo dalle monache a Nenshat, che ci hanno di nuovo deliziato con la cucina di Suor Mihaela, con caffè kosovaro, danze albanesi e canti e
con le loro simpatiche faccette furbe sono riuscite a far esibire ognuno di noi nelle proprie abilità. Ci hanno salutato dicendoci che all'inizio avevamo visi svegli ma occhi spenti, mentre alla
fine ci hanno ritrovato con visi stanchi, ma nei nostri occhi una luce particolare, una luce che solo Dio poteva aver acceso.
E' durata solo dieci giorni, abbastanza come prima esperienza, ma credo sia poco per far emergere lo spirito missionario dentro ognuno di noi. Ora siamo in crisi perché siamo tornati nel mondo consumistico ma vogliamo continuare a vivere la nostra missione anche qui, ma crediamo che questo sia solo l'inizio. Auguriamo a tutti una buona missione nel mondo!
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