P. Angelo Campana

Il volto tenero dell’Albania….

 

Se è vero che per conoscere un paese non consiste soltanto nel vederne l’architettura, i paesaggi, assaporarne la cucina, ma conoscerne la storia di chi ci vive e ci ha vissuto, questa metodologia è il giusto punto di partenza per scoprire il popolo Albanese, povero di opere architettoniche o di sapori culinari ma abbondantemente ricco di esperienza, che traspare dagli occhi puntati come tanti fari, verso le nazioni confinanti, di chi va alla ricerca di un luogo più vivibile. Quando parlo di questa terra, il cuore si dilata e recupera il suo spazio interiore, non soffocato dalle cose futili della vita. Prendo consapevolezza che l’esperienza missionaria propriamente detta non è questione di luogo geografico, ma di spazio umano, di luogo in cui tutti vivono in modo umano, dove ognuno rivela Dio che vive in questo mondo, che è presente ed operante e con questo viene scardinato quel pensiero che dice Dio indifferente, silenzioso e che abbandona e si scorda dell’uomo. Molti nel periodo del regime volevano eliminare Dio, eliminando la fede, distruggendo gli uomini di Dio e i segni della fede. Ebbene, il cuore dell’uomo abitato da Dio, nessuno l’ha messo a tacere, l’ha violato… 

Rientro in convento in bici e, sentendo alcuni operai parlare l’albanese, mi blocco felicissimo con la speranza di poter scambiare qualche parola nella loro lingua. Chiedo da quale zona provengono e scopro che sono di Durazzo; allora, come mio solito, mi lascio andare e inizio, o meglio, spero che inizi una piccola conversazione sulla mia esperienza in Tropoia. Bene, dalle mie parole non nasce nessuna conversazione, ma solo sbigottimento, sigillato da una frase lapidaria: “Ma vattene via da là, in Albania non c’è niente!”. Questa frase mi ferisce e rispondo, mentre mi rimetto in sella: “l’Albania è una terra bellissima, ed è un luogo vivibile.”

Ciò che rende un luogo bello, per noi Italiani, amanti di una cultura estetica, fatta di palazzi più o meno affrescati e dalle geometrie complesse, non sono le case stile mediceo, veneziano o Hollywoodiano, né il possesso di una bmw, di un mercedes o di qualche smartphone di ultimo modello (che è ciò che l’Abanese medio pensa), ma la qualità della vita. In ultima istanza, il tipo di relazione esistenziale che si dirama fra le persone, il vivere a misura d’uomo in un luogo umano.

Percorrere le strade sterrate dell’Albania mi ha portato a riflettere sulla fatica degli abitanti. Quanti volti, mani e piedi polverosi percorrono il ciglio delle strade per ritornare nelle loro case dopo giornate di duro lavoro o in cerca di qualcosa di più dignitoso. Quella polvere sul viso non è certo la polvere di cipria che spesso vediamo nei nostri contesti civilizzati; quei volti hanno la bellezza di vissuti pieni, seppur non profumati, accoglienti e non giudicanti. Da questo deduco che la fatica fa crescere in umanità. Questa stanchezza a volte copre, come un manto oscuro, ciò che c’è di più prezioso dietro quei volti nascosti in quelle fatiscenti casette distanti le une dalle altre. Spesso il dolore offusca gli occhi e l’uomo non scorge in modo nitido lo sguardo dell’altro.

Qui la casa, la famiglia sono talvolta un luogo difficile in cui nessuno vuole vivere. In casa si parla poco e con fatica e le relazioni fra padre e figli sono cariche di incomprensioni e pregiudizi. I figli crescono in questo grembo contratto, in ascolto della madre che somatizza l’urlo della disperazione, di scelte imposte e di un amore incatenato. Sì, è brutto dirlo, ma ancora oggi i matrimoni non sono liberi, frutto di un incontro amoroso; spesso sono combinati e la donna, nel giorno delle sue nozze, deve mostrarsi triste. Nessuno sorrida! Non si capisce se reciti o se ciò corrisponda a verità.

I figli avvertono tutto il disagio familiare e molti scappano dalla loro terra attratti da un sogno di libertà, di benessere, pensando che questo elimini la ferita che solca la carne dell’uomo. Ci vorranno decenni, limati da tanta pazienza, per un cambiamento a passo d’uomo. Non è possibile che l’uomo civilizzato propugni come modello di vita vivibile il mondo virtuale, nocivo nei confronti di chi fino a ieri aveva le mani intrise di terra. I passi ci devono essere per un cambiamento, ma questi devono essere fatti per un avvicinamento, per un ritorno alle case, in modo umano. Il popolo albanese, il popolo della terra delle Aquile, può riprendere a volare alto puntando verso il Sole che illumina e rischiara chi giace nelle tenebre, solo quando aprirà gli occhi e lotterà per vivere in quella terra. Ecco qui il ritorno al Signore.

L’Albanese è un popolo con una fede segnata, una fede che è scaturita dal sangue dei martiri. Per anni, non si poteva pronunciare il nome di Cristo Re, né recitare il Padre nostro e qualsiasi altra preghiera. Tutti vivevano con la paura della persecuzione. Alcuni mi raccontavano che si facevano il segno della croce con la lingua nel palato, per la paura di essere visti. Sul volto dell’uomo albanese, che ha vissuto il periodo del regime in questo terrore, si intravedono i segni, prima che dalle parole, dagli occhi carichi di lacrime.

Questa condivisione del ricordo, intriso di paura, che per molti risulta scandalosa, per me è stata inizio di una vita nuova in Cristo. Povero fra poveri. La povertà è il luogo della dimora di Dio, nella povertà ho scoperto Dio che si china e visita il cuore dell’uomo.

L’Albania ha una grossa ricchezza su cui pochi investono, ed è il grande potenziale umano che la società e la chiesa possiedono; sono i giovani, che non hanno vissuto il regime e che si trovano come con le ali tarpate da tutto ciò che li ha preceduti. I ragazzi albanesi conoscono bene due o tre lingue oltre la propria. Sono molto intelligenti ed hanno un grande senso di solidarietà che andrebbe coltivato. La chiesa albanese è in un momento delicato; la fede popolare è rimasta ancora, per certi versi, attaccata a tradizioni pre-conciliari per via che molti sacerdoti non hanno vissuto il Concilio e potuto attuarne gli insegnamenti.

La prima volta che andai in Albania mi commosse vedere tanti giovani che facevano ore e ore di cammino per ricevere l’Eucaristia e poi riprendere la via di casa all’imbrunire, felici di quel momento. Mi sembrava di assistere a una delle tante pagine descritte negli Atti o nelle lettere di Paolo, nelle quali si evidenzia che: “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere… tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e… ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo…” (At. 2, 42. 46-47). Questi momenti mi hanno come riportato a celebrare con fruttuosa partecipazione, in cui la parte razionale si è affiancata o, per meglio dire, è indietreggiata, per affiancarsi a ciò che stava nascosto, assopito nel profondo, ossia la parte sensibile. Non nascondo le mie commozioni, il cuore che batte nel sentire la vita respirare lì, attorno all’altare insieme ai fratelli e alle sorelle. È vero che in Albania c’è una fede semplice, ma questa va alimentata come i nostri primi cristiani hanno fatto. Mi colpisce san Luca quando dice all’inizio del Vangelo: “ Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della Parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (Lc 1, 1-4). Andando in Albania mi son detto: l’uomo ha bisogno di sentirsi dire cose vere. Allora, vedendo lì tanta semplicità e allo stesso tempo constatando che molti non conoscono quasi niente su Gesù, o che lo conoscono a modo loro e non secondo la fede della Chiesa, ho ritenuto e ritengo estremamente importante che chi comunica, approfondisca, conosca bene, come  direbbe san Luca, ogni circostanza, ogni passo della storia di salvezza, dell’amore misericordioso di Dio che abita in ciascuno di noi e lo condivida con i fratelli come segno di amicizia. Bisogna, per così dire, puntare in alto.

Una chiesa viva non dagli anelli d’oro, croci incastonate in pietre preziose è comparsa davanti ai miei occhi nella persona del vescovo, mons. Lucjan Avgustin. Un uomo appassionato, innamorato di Dio, che mi fece tornare alla mente un passo degli Atti degli apostoli in cui si dice che essi sentivano l’esigenza di testimoniare la parola di Dio. Ecco, mons. Avgustin, come pastore della diocesi confinante con il Kossovo, ha ripreso da qualche anno la visita ai villaggi della zona montuosa, riportando in quei luoghi dimenticati la Parola di Dio attraverso l’attività missionaria, che prevede momenti di catechesi e l’amministrazione dei sacramenti, nei mesi estivi. Sulle montagne, dai tempi di Giorgio Castriota Skanderbeg, si rifugiarono i discendenti di quei cristiani che popolano questa zona e che fuggirono all’invasione ottomana, stabilendosi in questi luoghi difficilmente raggiungibili; di qui derivò il nome di “Paese delle Aquile”. Qui, per diversi decenni nel periodo del regime, questi fratelli cristiani hanno subito una forte persecuzione e il parroco precedente all’attuale (don Antonio Giovannini) è martire della fede. Molti rivivono questi tristi momenti disumani nel ricordo, portando le ferite in uno sguardo spento, dispiaciuti di aver vissuto la fede nel nascondimento. Mi raccontavano alcuni che, quando arrivava il periodo delle feste di Pasqua, i bambini venivano interrogati dagli attivisti o dai militari del regime con domande del tipo: “avete mangiato uova?” Oppure, “Conoscete questa canzoncina?”. E iniziavano a canticchiare una melodia pasquale. Se i bambini rispondevano in modo affermativo, tutta la famiglia veniva arrestata. È ancora vivo il ricordo di quando sentivano che veniva scarcerato il sacerdote del villaggio e andava, all’imbrunire, nella casa di famiglia per recitare il rosario o per celebrare l’Eucaristia. La fede per molti anni l’hanno vissuta con la sofferenza di non poter condividere i doni spirituali. La Chiesa sta riprendendo le fila di questi anni, in cui l’uomo è stato dimenticato dall’altro uomo, non da Dio. Il Carmelo, presente nella persona delle nostre monache a Nenshat da più di dieci anni e a breve, grazie a Dio, quale piccola comunità di frati accanto alle monache, ha il compito di testimoniare la grande bellezza della vicinanza di Dio, dell’essere famiglia che vive in prossimità di Dio, nella condivisione dell’esistenza e, per questo, anche dello Spirito che abita in ciascuna persona